Sulle clausole di revisione prezzi nei contratti pubblici sono obbligatorie e possono includere meccanismi di aggiornamento basati su indici di inflazione concordati

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 16 maggio 2025, n. 4226, Sulle clausole di revisione prezzi nei contratti pubblici sono obbligatorie e possono includere meccanismi di aggiornamento basati su indici di inflazione concordati – Per garantire l’equilibrio contrattuale negli appalti pubblici l’art. 9 del d.lgs. n. 36/2023, al c. 4, prevede che le stazioni appaltanti e gli enti pubblici devono favorire l’inserimento di clausole di rinegoziazione nei contratti e devono pubblicizzarle già nel bando di gara. Il successivo art. 60, dopo aver previsto che “nei documenti di gara iniziali delle procedure di affidamento è obbligatorio l’inserimento delle clausole di revisione prezzi riferite alle prestazioni oggetto del contratto”, stabilisce che le predette clausole si attivano quando si verifica una variazione del costo della fornitura o del servizio, in aumento o in diminuzione, superiore al 5 per cento dell’importo complessivo e operano nella misura dell’80 per cento del valore eccedente la variazione del 5 per cento applicata alle prestazioni da eseguire. Inoltre, il c. 2 bis dell’art. 60 (inserito dall’art. 23, c.1, lett. c), d.lgs. n. 209/2024 c.d. correttivo) prevede permette alle parti di inserire nel contratto anche meccanismi di aggiornamento del prezzo basati su un indice di inflazione scelto di comune accordo. Questa opzione è facoltativa, cioè le parti possono decidere di usarla o meno. Se si usa questo meccanismo, l’aumento di prezzo che deriva da esso non viene considerato ai fini del calcolo del superamento del 5% che attiva le clausole di revisione prezzi. 

04226/2025REG.PROV.COLL.

 03713/2023 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO 

Il Consiglio di Stato 

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) 

ha pronunciato la presente 

SENTENZA 

sul ricorso numero di registro generale 3713 del 2023, proposto dalla società Gesenu s.p.a. in proprio e nella qualità di mandataria dell’associazione temporanea d’imprese composta da: “Gesenu s.p.a. – CNS Consorzio Nazionale Servizi società cooperativa”, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Giovanni Ranalli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; 

contro 

il Comune di Viterbo, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Paola Conticiani, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; 

per la riforma 

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda) n. 04357/2023, resa tra le parti. 

 

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati; 

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Viterbo; 

Visti tutti gli atti della causa; 

Relatrice nell’udienza pubblica del giorno 20 febbraio 2025 la consigliera Silvia Martino; 

Uditi gli avvocati Fabrizio Garzuglia, su delega scritta dell’avvocato Giovanni Ranalli, e Paola Conticiani; 

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. 

 

FATTO e DIRITTO 

  1. Con il ricorso di primo grado l’odierna appellante esponeva che, a seguito di procedura ad evidenza pubblica, con contratto rep. 24773/37 del 6 settembre 2012 le era stato affidato il servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani e servizi di nettezza urbana nel Comune di Viterbo.

1.1. A fronte di tali attività il Comune si era obbligato a pagare un canone complessivo, forfettario ed invariabile di € 49.733.349,62 (art. 8 del contratto) per l’intera durata del contratto, fissata in sei anni a partire dall’avvio delle prestazioni. 

L’articolo 10 del contratto stabiliva peraltro la possibilità, ai sensi dell’articolo 115 del d.lgs. n. 163/2006, di ottenere una revisione del canone all’esito di apposita istruttoria svolta dall’Amministrazione ed operata applicando allo stesso la variazione media percentuale dell’Indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività “avutasi nel corso dell’anno precedente rispetto all’indice in vigore alla data dell’offerta”. 

Il medesimo articolo prevedeva, altresì, la “detrazione dell’alea del 3% (tre percento)” sulla revisione del canone prevista. 

1.2. Con il ricorso introduttivo di primo grado, la società domandava al T.a.r. l’accertamento della nullità e/o illiceità dell’art. 10 del contratto sottoscritto in data 6 settembre 2012 nella parte in cui prevede la detrazione dell’alea del 3%, per preteso contrasto con la norma imperativa di cui al cit. art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006. 

La società domandava altresì l’accertamento del diritto a ricevere l’adeguamento del prezzo del contratto senza l’applicazione dell’alea del 3%, con la conseguente condanna del Comune di Viterbo al pagamento della differenza e/o conguaglio del maggior importo dovuto, quantificato in euro 248.666,75 per anno di contratto successivo al primo per un totale di euro 1.243.333,74, maggiorati di interessi moratori e rivalutazione monetaria. 

  1. Con la sentenza oggetto dell’odierna impugnativa il T.a.r.:

– ha respinto l’eccezione di difetto di giurisdizione; 

– ha respinto il ricorso nel merito; 

– ha compensato tra le parti le spese di lite. 

  1. Con il presente appello la società, rimasta soccombente, deduce quanto segue:
  2. Error in iudicando – Violazione e falsa applicazione dell’art. 115 del D.Lgs. n. 163/2006 Violazione e falsa applicazione dell’art. 1419 c.c e art. 1339 c.c. Travisamento, illogicità. Ingiustizia manifesta.

A differenza di quanto sarebbe stato ritenuto dal T.a.r. la questione oggetto del giudizio non riguarda la mancata previsione all’interno del contratto di una clausola che preveda la revisione del corrispettivo, né attiene alla relativa istruttoria. Sulla questione centrale del contenzioso (nullità della clausola che prevede la detrazione automatica dell’alea del 3%) il primo giudice si sarebbe infatti limitato ad affermare che l’art. 115 del d.lgs. n. 163/2006 legittimerebbe la forfettizzazione del rischio del contratto mediante una percentuale predeterminata di detrazione, stabilita nella fattispecie in esame nel 3%. 

Tale argomentazione sarebbe errata in quanto il concetto di alea sarebbe richiamato dalla giurisprudenza amministrativa al solo fine di giustificare l’orientamento che esclude l’automatismo nella revisione del corrispettivo e che prevede la necessità che venga, comunque, effettuata dalla s.a. una verifica istruttoria sulla richiesta dell’appaltatore. 

Secondo l’appellante, se è da escludere ogni automatismo nella revisione del corrispettivo, andrebbe parimenti esclusa anche l’ammissibilità dell’automatismo relativo alla (pre)determinazione di un’alea (a solo carico dell’impresa), tale da comportare la riduzione del corrispettivo revisionato 

Siffatta clausola sarebbe nulla perché violerebbe l’art. 115 cit., norma imperativa inderogabile da parte della stazione appaltante. 

In tal senso, l’appellante richiama molteplici precedenti giurisprudenziali. 

Anche il riferimento operato dal T.a.r. all’art. 1664 c.c. non sarebbe pertinente poiché l’art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006 è una disposizione speciale propria dei contratti pubblici. 

La norma di cui si verte è stata posta a tutela di entrambe le parti contrattuali ed escluderebbe la validità di clausole in base alle quali venga stabilita una percentuale di rischio avulso dalla verifica dell’adeguamento del corrispettivo stesso. 

Nelle ipotesi di inserimento di una clausola difforme da quanto previsto dalla legge, opera il meccanismo della sostituzione automatica della clausola difforme ai sensi degli art. 1419, comma 2, e 1339 c.c. (cfr. Cons. Stato, sez. III, 9 gennaio 2017, n. 25). 

A differenza di quanto affermato dal primo giudice (capo 16 della sentenza), la pretesa dell’odierna appellante avrebbe natura di diritto soggettivo poiché attiene alla quantificazione del corrispettivo revisionato in favore dell’appellante esecutrice del servizio. 

  1. – Error in iudicando. Omessa pronuncia sul secondo motivo del ricorso di primo grado (“Violazione e falsa applicazione dell’art. 8 del D.P.R. n. 158/1999. Violazione dei principi di correttezza e buona fede. Eccesso di potere per contraddittorietà ed ingiustizia manifesta”). Violazione dell’art. 2 della L. 241/1990.

Con il secondo motivo del ricorso di primo grado era stato censurato il comportamento inerte del Comune di Viterbo in relazione alla richiesta della società ricorrente di non applicare la detrazione del 3% più volte avanzata (cfr. lettere del 30.11.2015, 5/18.2.2016, 9.11.2016) e valutata positivamente nella fase di approvazione del PEF del 2014 con la nota dirigenziale del 15 luglio 2014 (doc. 5 allegato al ricorso). 

A fronte di tale proposta tradotta nel PEF 2014 il Comune ha tuttavia continuato a non riconoscere l’adeguamento del canone senza tale detrazione. 

Anche sotto questo profilo il comportamento del Comune sarebbe censurabile. 

Si tratterebbe, a dire dell’appellante, di una censura autonoma rispetto al primo motivo svolto in primo grado. 

L’inerzia sulla richiesta del 30.11.12015, sollecitata nel 2016, avrebbe dovuto essere valutata in termini di obbligo di riscontro all’istanza del privato generalmente prevista dall’art. 2 della l. n. 241/1990. 

III. Riproposizione del terzo motivo del ricorso di primo grado. 

Agli importi che sarebbero tuttora dovuti dal Comune, va applicata la normativa in materia di interessi moratori di cui al d.lgs. n. 231/2002. 

  1. Si è costituito per resistere il Comune di Viterbo.
  2. Le parti hanno depositato memorie conclusionali e di replica, in vista della pubblica udienza del 20 febbraio 2025 alla quale l’appello è stato trattenuto per la decisione.
  3. L’appello è infondato e deve essere respinto.

Al riguardo, si osserva quanto segue. 

  1. Con il primo motivo di appello viene riproposta la tesi secondo cui la previsione di una soglia di variazione dei prezzi al di sotto della quale non si applica il meccanismo di revisione costituirebbe una violazione dell’art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, tale da determinare la nullità della relativa clausola negoziale.

7.1. Il Collegio rammenta, in primo luogo, che la nullità negoziale, ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c., discende dalla violazione di norme aventi contenuti sufficientemente specifici, precisi e individuati, non potendosi, in mancanza di tali caratteri, applicare una sanzione tanto grave quale la nullità del rapporto negoziale (Cass., Sez, un., sentenza del 15 marzo 2022 n. 8472). 

Nella fattispecie in esame, al contrario, la dedotta nullità è il frutto di una ricostruzione interpretativa dell’art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006 che non ha alcun supporto né letterale né sistematico. 

7.2. Sotto il profilo letterale, tale disposizione, infatti, si limita(va) a prevedere l’obbligo di introdurre nei contratti ad esecuzione periodica o continuativa una clausola di revisione periodica del prezzo, revisione da attivare poi a seguito di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili sulla base dei costi standardizzati per tipo di servizio e fornitura pubblicati annualmente a cura dell’Osservatorio dei contratti pubblici. Dall’art. 115 non emerge(va) invece una specifica contrarietà alla legge – tale da ritenere nulla la relativa pattuizione – di una clausola che prevede una siffatta soglia di sbarramento all’adeguamento. 

7.3. Sotto il profilo sistematico, poi, la giurisprudenza amministrativa ha evidenziato che la periodicità della revisione non implica affatto che si debba azzerare o neutralizzare l’alea relativa ai contratti di durata, come confermato dalla disciplina di cui all’art. 1664 c.c. per i contratti regolati dal codice civile, la quale impone alle parti di provare la sussistenza di eventuali circostanze imprevedibili che abbiano determinato aumenti o diminuzioni nel costo dei materiali o della mano d’opera, e che accorda la revisione solo per la differenza che ecceda il decimo del prezzo complessivo convenuto. 

Tale disposizione, benché non direttamente applicabile ai contratti pubblici, esprime comunque un principio di ordine generale in materia negoziale. 

Sarebbe del resto “ben singolare una interpretazione che esentasse del tutto, in via eccezionale, l’appaltatore dall’alea contrattuale, sottomettendo in via automatica ad ogni variazione di prezzo solo le stazioni appaltanti pubbliche, pur destinate a far fronte ai propri impegni contrattuali con le risorse finanziarie provenienti dalla collettività (in tal senso Consiglio di Stato sez. III, 25 marzo 2019 n. 1980)” (sentenza n. 7756 del 2022, cit.). 

La revisione dei prezzi si giustifica cioè solo a fronte di uno squilibrio sopravvenuto del rapporto contrattuale, eccedente l’alea propria dei contratti di durata. 

Tali conclusioni sono altresì confermate – come sottolineato dal Comune – da altre disposizioni in materia di appalti che, in ambiti di più dettagliata regolamentazione come i lavori evidenziano come il meccanismo della revisione dei prezzi normalmente preveda “franchigie” che non intaccano la natura dello strumento revisionale né ne compromettono le finalità. Giova ad esempio ricordare come, in materia di lavori, dallo stesso d.lgs. n. 163 del 2006 (vigente ratione temporis) fosse prevista l’irrilevanza dei mutamenti di prezzo dei materiali da costruzione in aumento o diminuzione al di sotto della percentuale di variazione del 10% (art. 133). 

Nello stesso senso, l’art. 9 del d.lgs. n. 36 del 2023, non applicabile ratione temporis alla controversia oggetto della presente decisione, nell’affermare il principio della conservazione dell’equilibrio contrattuale, dopo aver disciplinato l’istituto della rinegoziazione ai primi tre commi, al comma 4 oggi stabilisce: «Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti favoriscono l’inserimento nel contratto di clausole di rinegoziazione, dandone pubblicità nel bando o nell’avviso di indizione della gara, specie quando il contratto risulta particolarmente esposto per la sua durata, per il contesto economico di riferimento o per altre circostanze, al rischio delle interferenze da sopravvenienze». 

Il successivo art. 60, dopo aver previsto che “nei documenti di gara iniziali delle procedure di affidamento è obbligatorio l’inserimento delle clausole di revisione prezzi riferite alle prestazioni oggetto del contratto”, prevede che le predette clausole si attivano quando si verifica una variazione del costo della fornitura o del servizio, in aumento o in diminuzione, superiore al 5 per cento dell’importo complessivo e operano nella misura dell’80 per cento del valore eccedente la variazione del 5 per cento applicata alle prestazioni da eseguire. 

È vero che il comma 2 bis dell’articolo da ultimo citato (come inserito dall’art. 23, comma 1, lett. c), D.Lgs. 31 dicembre 2024, n. 209) prevede che “Per gli appalti di servizi e forniture, resta ferma la facoltà di inserire nel contratto, oltre alle clausole di cui al comma 1, meccanismi ordinari di adeguamento del prezzo del contratto all’indice inflattivo convenzionalmente individuato tra le parti. In tale ipotesi, l’incremento di prezzo riconosciuto in virtù dei meccanismi ordinari di adeguamento del prezzo del contratto non è considerato nel calcolo della variazione del costo del servizio o della fornitura rilevante, ai sensi del comma 2, lettera b), ai fini dell’attivazione delle clausole di revisione prezzi”. Tuttavia tale disposizione di legge, si ripete non applicabile alla fattispecie controversa, è facoltativa e non obbligatoria. 

7.4. In conclusione è infondato il primo motivo di appello nella parte in cui pretende che venga dichiarata la nullità parziale della clausola che prevede la “franchigia” all’adeguamento del prezzo. 

7.5. Il secondo mezzo dell’appello censura la sentenza impugnata perché il TAR non avrebbe accertato l’inerzia dell’amministrazione sulla richiesta del 30.11.12015, sollecitata nel 2016, inerzia che avrebbe dovuto essere valutata anche in termini di obbligo di riscontro all’istanza del privato generalmente prevista dall’art. 2 della L. 241/1990 (pagina 15 dell’appello). 

Il Collegio rileva, per un verso, l’inammissibilità del motivo perché nuovo rispetto a quello avanzato in primo grado, essendo stata in primo grado richiesta la condanna al pagamento delle somme una volta accertata la nullità parziale della più volte citata clausola. Nella rubrica del secondo motivo e nel corpo della censura del ricorso in primo grado (pagine 9 e 10) nessun riferimento v’è alla violazione dell’art. 2 l. 241 del 1990. 

Sotto altro aspetto, in ragione del tenore della clausola (valida per le ragioni che si sono dette) e di quanto deciso nel respingere il primo motivo di ricorso in primo grado e di appello, la domanda di condanna è infondata perché non spetta l’adeguamento “pieno” rivendicato e conseguentemente nessun obbligo di pagamento nell’entità richiesta spetta alla parte. 

7.6. Dall’infondatezza del primo motivo, discende inoltre la piana reiezione del terzo, relativo alle poste accessorie di un credito che è, come detto, insussistente. 

  1. In definitiva, l’appello deve essere respinto. In considerazione dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia, sussistono tuttavia i presupposti per la compensazione tra le parti delle spese del grado.

P.Q.M. 

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. 

Compensa tra le parti le spese del grado. 

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. 

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 febbraio 2025 con l’intervento dei magistrati: 

Vincenzo Neri, Presidente 

Silvia Martino, Consigliere, Estensore 

Giuseppe Rotondo, Consigliere 

Luigi Furno, Consigliere 

Ofelia Fratamico, Consigliere 

L’ESTENSORE

Silvia Martino

IL PRESIDENTE

Vincenzo Neri

IL SEGRETARIO