CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 27 maggio 2025, n. 4628 Sulle caratteristiche del giudizio per l’imposizione di una dichiarazione di interesse culturale e sindacato del G.A. – Il giudizio per l’imposizione di una dichiarazione di interesse culturale storico-artistico particolarmente importante (c.d. vincolo diretto), ai sensi degli artt. 10, c. 3, lett. a), 13 e 14, del d. lgs. n. 42/2004, è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari (della storia, dell’arte e dell’architettura) caratterizzati da ampi margini di opinabilità. Ne consegue che l’accertamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela è sindacabile in sede giudiziale esclusivamente sotto i profili della ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza, logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto.
04628/2025REG.PROV.COLL.
01679/2024 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1679 del 2024, proposto da
Giovanni Volpi di Misurata, rappresentato e difeso dagli avvocati Giuliano Lemme, Antonella Anselmo e Pierpaolo Carbone, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Ministero della Cultura, Soprintendenza ABAP per le Province di Verona, Rovigo e Vicenza, Segretariato Regionale per il Veneto, Commissione Regionale per il Patrimonio Culturale del Veneto e Soprintendenza ABAP per il Comune di Venezia e Laguna, in persona dei rispettivi legali rappresentanti per tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, Sezione Seconda, n. 23 dell’8 gennaio 2024.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Avvocatura Generale dello Stato;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 27 marzo 2025 il Cons. Roberto Caponigro, e udita, per la parte appellante, l’avvocata Antonella Anselmo;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
- La Commissione Regionale per il Patrimonio Culturale del Veneto presso il Segretariato Regionale del Ministero della Cultura, con deliberazione 10 novembre 2022, ha dichiarato l’interesse culturale particolarmente importante, ai sensi del combinato disposto degli articoli 10, comma 3, lettere a) e d), 13 e 128 del d.lgs. n. 42 del 2004, dell’immobile denominato Palazzo D’Anna (Van Haanen) Martinengo Talenti Volpi di Misurata, sito nel Comune di Venezia, descritto negli allegati relazione culturale ed estratto di mappa e sottoposto a tutte le condizioni in esso contenute.
Tale atto dichiarativo ha ricompreso come pertinenziali anche alcuni elementi del mobilio e della decorazione in ragione del legame con la figura di Giuseppe Volpi, nei suoi connotati politici, mondani, di centralità nella società veneziana, di rilevante valore come testimonianza legata alla storia novecentesca di Venezia, nonché come parte del programma decorativo legato all’attività di Volpi in Libia.
Con successivo provvedimento del 31 gennaio 2023, la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Verona, Rovigo e Vicenza ha considerato improcedibile l’istanza di rilascio di attestato di libera circolazione per i beni indicati in epigrafe, alla luce dell’intervenuto decreto di dichiarazione di interesse culturale che li individua e li ricomprende in quanto pertinenziali.
I beni per i quali l’istanza è stata considerata improcedibile sono stati così individuati:
– coppia di busti scolpiti in marmi policromi, valore espresso in € 120.000;
– coppia di piedistalli in malachite e bronzo dorato, valore espresso in € 50.000;
– coppia di candelabri a sette luci in bronzo dorato e patinato, valore espresso in € 180.000;
– scrivania da centro Impero in mogano e bronzo dorato con cornici ebanizzate, valore espresso in € 400.000;
– poltrona Impero in legno di mogano dorato, ebanizzato, valore espresso in € 30.000.
Di talché, il sig. Giovanni Volpi di Misurata ha impugnato detti atti, con distinti ricorsi, dinanzi al Tar per il Veneto, il quale, con la sentenza della Seconda Sezione n. 23 dell’8 gennaio 2024, previa riunione, ha dichiarato improcedibile il ricorso introduttivo del primo giudizio e respinto i motivi aggiunti allo stesso ed ha respinto il secondo ricorso.
L’interessato, avverso la detta sentenza, ha interposto il presente appello, articolando i seguenti motivi:
- I) Error in iudicando. La violazione del termine di conclusione dei procedimenti ex artt. 68 e 128 d.lgs. 42/2004.
Il Tar ha dichiarato infondata la censura circa il mancato rispetto del termine di 120 giorni previsto per la conclusione del procedimento dal DPCM 18 novembre 2010, n. 231, atteso che il termine sarebbe ordinatorio; il giudice di primo grado ha speso la medesima argomentazione per il procedimento ex art. 68 del d.lgs. n. 42 del 2004.
Nel caso di specie oggetto del petitum sarebbe stata però la censura volta a contestare l’elusione dell’adozione di un diniego quale unico esito tipico e necessario per il contestuale avvio del procedimento di vincolo; l’anomalia di cui è causa sarebbe stata la sospensione de facto del procedimento ex art. 68 e l’inserimento illegittimo al suo interno di un procedimento ex art. 128, anziché di quello tipico ex art. 14.
Il Tar avrebbe liquidato la questione del vizio della funzione mediante un uso arbitrario da parte della PA di sequenze procedimentali, mancata giustificazione della sospensione, ripetuto ritardo e violazione dei termini al fine di creare ex post apparenti condizioni per la declaratoria di improcedibilità della domanda di rilascio dell’attestato di libera circolazione (ALC): questo sarebbe stato il petitum, non la censura sul rifiuto inadempimento.
La violazione del termine di 120 giorni previsto per la conclusione del procedimento dal D.P.C.M. 18 novembre 2010, n. 231, aggiunta all’ulteriore e ancor più grave violazione del termine di 40 giorni ex art. 68, sarebbero state censurate nei ricorsi perché costituirebbero l’escamotage per sostituire a posteriori le informazioni o certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni, le uniche a giustificazione della sospensione per un massimo di 30 giorni del procedimento di rilascio di ALC (art. 68 e 2, comma 7, L. 241/1990).
- II) Errores in iudicando. Violazione degli artt. 10/3, 68 e 128/3 d.lgs. 42/2004, 1 l. 241/1990; parametro costituzionale e sovranazionale: artt. 97, 42, cost; art. 17 e prot. 1 Cedu. Omessa valutazione delle prove del ricorrente.
L’art. 128/3 non avrebbe potuto inserirsi nell’ambito del procedimento ex art. 68.
In altri termini, la revisione del vincolo non avrebbe consentito di estenderne la portata su beni ulteriori, già oggetto di richiesta di ALC su beni non vincolati nè oggetto di diniego con contestuale avvio di procedimento di dichiarazione ex art. 14 D. Lgs. 42/2004.
Il vincolo storico – relazionale non potrebbe prescindere, per legge, dall’allegazione di un fatto storico documentato o documentabile (art. 10/3, lett. d), mentre il provvedimento gravato in primo grado non spiegherebbe il nesso specifico tra la storia coloniale e i beni mobili de quibus.
L’error in procedendo della sentenza risiederebbe nel mancato accertamento del vizio della funzione, cuore pulsante del petitum: l’inserimento del procedimento ex art. 128/3, in sé non necessario, e comunque non contemplato tra le possibilità dell’art. 68, co. 6, ma posto in essere al fine di stravolgerne gli esiti.
In altri termini, si sarebbe creato un nesso delle sequenze procedimentali, che viola l’art. 68, co. 6, il quale, in presenza di una valutazione di esistenza dell’interesse culturale, rimanda esclusivamente all’avvio del procedimento di dichiarazione di interesse culturale ex art. 14, come esito consequenziale e obbligato al diniego dell’ALC.
L’Amministrazione avrebbe illegittimamente avviato il procedimento ex art. 128 cit., strumento inidoneo a “precisare meglio l’ambito di tutela” e quindi “dichiarare la pertinenzialità di alcuni arredi” (pag. 7 del provvedimento dichiarativo d’interesse culturale).
La revisione del vincolo sarebbe volta esclusivamente a garantire la perduranza del regime di tutela imposta sulla base delle normative previgenti.
Considerato il carattere integrativo della relazione storico – artistica rispetto alla proposta di vincolo, sussisterebbe la violazione delle garanzie del contraddittorio endoprocedimentale, nella misura in cui l’allegazione solo parziale delle argomentazioni storico artistiche avrebbe impedito al privato, in perfetta buona fede, di predisporre un’adeguata difesa.
III) Error in iudicando: Erronea motivazione sulla violazione e/o falsa applicazione dell’art. 10/3 lett. a) d) e) del d.lgs. 42/2004, in relazione al d.m. 537/2017. vizio di eccesso di potere per travisamento di fatti storici e difetto di istruttoria sulla asserita funzione pubblico – istituzionale dell’immobile. omesso esame della relazione del prof. Segreto e degli altri atti dell’istruttoria del primo grado. violazione del giusto processo.
Il giudice di primo grado, rinviando pedissequamente alle repliche della parte resistente, avrebbe errato nel non riscontrare il vizio della motivazione del decreto di vincolo, come evidenziato dalla parte privata con le prove fornite in giudizio.
Non sarebbe possibile rintracciare le ragioni sostanziali che attestano la singolarità dei beni come testimonianza di pregio artistico – rappresentativo e storico.
La dichiarazione di interesse culturale particolarmente importante non espliciterebbe nemmeno un iter argomentativo logico e ragionevole, che dispieghi il “criterio discretivo” prescelto per imporre il vincolo su certi e non altri arredi di carattere similare (gli altri mobili hanno conseguito l’ALC, ad eccezione di un Clavicembalo, dall’indubbio valore intrinseco, ma certo non pertinenziale).
V) Error in iudicando. Violazione di legge e/o falsa applicazione dell’art. 10/3 lett. e) d.lgs. 42/2004. l’eccezionalità della ratio dell’istituto della tutela pertinenziale. istanza di questione di legittimità costituzionale del vincolo di inamovibilità ex art. 10/3 lett. d) per violazione degli artt. 2, 3, 9 e 42 cost. e dell’art. 1 prot. addiz. n. 1 c.e.d.u. quale norma interposta all’art. 117 cost. istanza di rinvio alla Corte Costituzionale.
Un vincolo su una serie di oggetti richiederebbe ex art. 10/3 lett. e) D. Lgs. 42/2004 un eccezionale interesse, che nel caso di specie la PA non allegherebbe in alcun modo.
Ciò che è stato contestato e provato in giudizio da Giovanni Volpi di Misurata sarebbe stata proprio l’inattendibilità storica dell’assunto della PA, con la conseguenza che non vi era alcuna integrità materiale e funzionale degli arredi, secondo il duplice filone d’interesse culturale prospettato nel provvedimento impugnato.
La sentenza impugnata sarebbe viziata nel ragionamento logico giuridico in quanto, pur dichiarando il provvedimento legittimo, non avrebbe effettuato la verifica di conformità al D.M. 537 del 2017.
Sulla questione di legittimità costituzionale.
Per tutte le ragioni rassegnate la riforma della sentenza dovrebbe accertare illegittimo il provvedimento di revisione del vincolo architettonico sul Palazzo al sol fine di creare un legame pertinenziale jure publico dei cinque mobili de quibus, per violazione degli artt. 128 e 10/3, lett. d), e), D. Lgs. 42/2004 e per eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento del potere dal fine proprio normativo e per la violazione del principio di ragionevolezza/proporzionalità.
In alternativa, qualora la tesi non fosse ritenuta come la sola costituzionalmente compatibile, occorrerebbe sollevare la questione di legittimità costituzionale al fine di dichiarare l’illegittimità del vincolo pertinenziale ex art. 10, lett. d), D. Lgs. 42/2004, anziché ex art. 10/3, lett. e), D. Lgs. 42/2004, per violazione degli artt. 2, 3, 9, 42, 97 Cost. e dell’art. 1 Primo Protocollo Addizionale C.E.D.U. e dell’art. 17 della Carta dei Diritti fondamentali dell’UE, quali parametri ulteriori interposti nel giudizio di costituzionalità rispetto all’art. 117 Cost.
Ora, dal momento che la compressione del diritto dominicale sarebbe del tutto analoga rispetto a quella operata al fine di tutelare le collezioni o serie di oggetti, l’art. 10/3, lett. d), D. Lgs. 42/2004 applicato alle pertinenze sarebbe irragionevole, in relazione ai parametri costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 9, 42, 97 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione agli obblighi internazionali ed eurounitari sulla garanzia della proprietà privata e diritto inviolabile della persona, nella misura in cui consente – in ipotesi – di creare un vincolo d’insieme (i.e. pertinenziale) tra beni mobili e bene immobile, con conseguente effetto di inamovibilità dei primi, sulla base del “particolare interesse culturale”, anziché dell’“eccezionale interesse”.
- VI) Error in iudicando: Erronea motivazione sul vizio di eccesso di potere nella figura sintomatica della violazione del principio di parità di trattamento quale indice di anomalia del potere discrezionale.
Parimenti viziata sarebbe la sentenza nella parte in cui difetta di accertare la figura sintomatica dell’eccesso di potere che attingerebbe il provvedimento di vincolo sotto il profilo della disparità di trattamento correlativamente ad altri oggetti ed arredi provenienti da Palazzo d’Anna.
L’Avvocatura Generale ha analiticamente controdedotto, concludendo per il rigetto dell’appello.
L’appellante ha depositato altra memoria a sostegno delle proprie ragioni.
All’udienza pubblica del 27 marzo 2025, la causa è stata trattenuta per la decisione.
- L’appello è infondato e va di conseguenza respinto.
- Il corpus normativo che assume più pregnante rilievo nella fattispecie è costituito dagli articoli 10, comma 3, lett. a) e d), 13, comma 1, 68, commi 1 e 3, e 128, comma 3, del d.lgs. n. 42 del 2004.
L’art. 10, comma 3, lett. a) e d) dispone che:
“3. Sono altresì beni culturali, quando sia intervenuta la dichiarazione prevista dall’articolo 13:
- a) le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1;
- d) le cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse, particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose. Se le cose rivestono altresì un valore testimoniale o esprimono un collegamento identitario o civico di significato distintivo eccezionale, il provvedimento di cui all’articolo 13 può comprendere, anche su istanza di uno o più comuni o della regione, la dichiarazione di monumento nazionale”.
L’art. 13, comma 1, stabilisce che: “La dichiarazione accerta la sussistenza, nella cosa che ne forma oggetto, dell’interesse richiesto dall’articolo 10, comma 3”.
L’art. 68, comma 1, indica che “Chi intende far uscire in via definitiva dal territorio della Repubblica le cose indicate nell’articolo 65, comma 3, deve farne denuncia e presentarle al competente ufficio di esportazione, indicando, contestualmente e per ciascuna di essi, il valore venale, al fine di ottenere l’attestato di libera circolazione” ed il successivo comma 3 che “L’ufficio di esportazione, accertata la congruità del valore indicato, rilascia o nega con motivato giudizio, anche sulla base delle segnalazioni ricevute, l’attestato di libera circolazione, dandone comunicazione all’interessato entro quaranta giorni dalla presentazione della cosa”.
L’art. 128, comma 3, prevede che:
“In presenza di elementi di fatto sopravvenuti ovvero precedentemente non conosciuti o non valutati, il Ministero può rinnovare, d’ufficio o a richiesta del proprietario, possessore o detentore interessati, il procedimento di dichiarazione dei beni che sono stati oggetto delle notifiche di cui al comma 2, al fine di verificare la perdurante sussistenza dei presupposti per l’assoggettamento dei beni medesimi alle disposizioni di tutela”.
- Con il primo motivo, a fronte della statuizione contenuta nella sentenza di primo grado sulla natura ordinatoria del termine, l’appellante ha posto in rilievo che l’anomalia di cui è causa sarebbe consistita nella sospensione de facto del procedimento ex art. 68 e l’inserimento illegittimo al suo interno di un procedimento ex art. 128, anziché di quello tipico ex art. 14.
La censura, anche così riguardata, è infondata.
4.1. In primo luogo, occorre ribadire il carattere ordinatorio del termine di centoventi giorni stabilito dal D.P.C.M. 18 novembre 2010 – regolamento di attuazione dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, riguardante i termini dei procedimenti amministrativi del Ministro della Cultura aventi durata superiore a novanta giorni – in relazione al procedimento di dichiarazione di interesse culturale di cui agli articoli 13 e 14 del d.lgs. n. 42 del 2004.
Parimenti deve ritenersi ordinatorio il termine di quaranta giorni fissato dall’art. 68, comma 3, del d. lgs. n. 42 del 2004 per la conclusione del procedimento avviato con l’istanza di rilascio dell’attestato di libera circolazione.
Alla violazione del termine finale di un procedimento amministrativo, infatti, non consegue l’illegittimità dell’atto tardivo, salvo che il termine sia qualificato perentorio dalla legge.
L’art. 2-bis della legge sul procedimento correla all’inosservanza del termine finale conseguenze significative sul piano della responsabilità dell’Amministrazione, ma non include, tra le conseguenze giuridiche del ritardo, profili afferenti la stessa legittimità dell’atto tardivamente adottato.
Il ritardo, in definitiva, non è un vizio in sé dell’atto (cfr. Cons. Stato, VI, 25 maggio 2022, n. 4194).
Il termine di conclusione del procedimento di cui all’art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241, in altri termini, di regola riveste natura ordinatoria, con la conseguenza che il mancato rispetto del medesimo non vizia l’atto adottato tardivamente, salvo che la legge di settore lo qualifichi come perentorio (cfr. Cons. Stato, VII, 30 marzo 2024, n. 2979).
4.2. L’appellante, tuttavia, non contesta tanto il superamento del termine di conclusione dei procedimenti, quanto il fatto che, nell’ambito del procedimento ad iniziativa di parte di cui all’art. 68 del Testo unico dei beni culturali, l’Amministrazione abbia illegittimamente inserito un procedimento, avviato d’ufficio, ex art. 128 dello stesso testo unico, che ha determinato l’improcedibilità della richiesta in relazione a cinque oggetti, laddove l’unico esito del diniego all’istanza di attestato di libera circolazione sarebbe stato l’avvio del procedimento di dichiarazione ai sensi dell’art. 14.
Di qui, secondo la prospettazione della parte, il vizio della funzione amministrativa attraverso un uso arbitrario di sequenze procedimentali.
Il Collegio ritiene infondata la prospettazione in quanto – ribadito che il ritardo nell’adozione dei provvedimenti, sia quello relativo al procedimento d’ufficio ex art. 128, sia quello relativo al procedimento ad istanza di parte ex art. 68, non determina l’illegittimità degli atti impugnati – nessuna ragione preclusiva all’iniziativa dell’Amministrazione di rinnovare la dichiarazione di interesse culturale, estendendola anche ad elementi pertinenziali, può ravvisarsi nella normativa di riferimento e ciò anche, come nel caso di specie, in cui l’occasione per l’estensione della dichiarazione sia stata costituita dall’istanza di rilascio dell’attestato di libera circolazione dei beni.
In altri termini, nella fattispecie in esame, la complessiva azione amministrativa è stata avviata dall’istanza di parte ex art. 68 d.lgs. n. 42 del 2004, acquisita agli atti della Soprintendenza ABAP per le province di Verona Rovigo e Vicenza in data 9 dicembre 2021, a seguito della quale il Ministero della Cultura ha avviato d’ufficio un procedimento ex art. 128, comma 3, del d.lgs. n. 42 del 2004, giungendo ad estendere la dichiarazione di interesse culturale particolarmente importante, oltre che all’immobile, anche ad alcuni specifici elementi del mobilio e della decorazione ritenuti pertinenziali.
Il sig. Volpi di Misurata ha poi sostenuto che la revisione del vincolo non avrebbe consentito di estenderne la portata su beni ulteriori, già oggetto di richiesta di attestato di libera circolazione.
La prospettazione è infondata.
L’art. 128, comma 3, del d.lgs. n. 42 del 2008 prescrive che il Ministero può rinnovare il procedimento di dichiarazione dei beni, d’ufficio o su istanza di un soggetto qualificato, “in presenza di elementi di fatto sopravvenuti ovvero precedentemente non conosciuti o non valutati”, per cui la previsione normativa è del tutto compatibile con un procedimento avviato d’ufficio durante la fase istruttoria di un procedimento ad istanza di parte per il rilascio di un attestato di libera circolazione.
La questione, semmai, verte nell’accertare se il procedimento di rinnovazione potesse estendersi alla dichiarazione di interesse su beni ritenuti pertinenziali, atteso che la norma indica come finalità del procedimento “di verificare la perdurante sussistenza dei presupposti per l’assoggettamento dei beni medesimi alle disposizioni di tutela”.
Il Collegio ritiene che la formulazione della norma non sia tale da escludere la possibilità che il procedimento si concluda con una estensione della tutela a beni originariamente non oggetto della stessa.
Infatti, verificare la sussistenza dei presupposti per l’assoggettamento dei beni a tutela può essere inteso in senso plurimo, vale a dire che può avere una molteplicità di esiti: la conferma della tutela già esistente; la revoca della tutela precedentemente accordata; l’estensione della tutela oltre quella già precedentemente disposta.
Di talché, non è condivisibile la doglianza secondo cui l’Amministrazione, in pendenza del procedimento ad istanza di parte ex art. 68, avrebbe illegittimamente avviato il procedimento d’ufficio ex art. 128.
4.3. Ciò non esclude la possibile applicazione dell’art. 68, comma 6, del d.lgs. n. 42 del 2004, secondo cui il diniego dell’istanza di rilascio dell’attestato di libera circolazione comporta l’avvio del procedimento di dichiarazione ai sensi dell’art. 14.
Tuttavia, nel caso di specie, essendo stato avviato d’ufficio il procedimento ex art. 128, con estensione del vincolo culturale a taluni beni per i quali era stato richiesto il rilascio dell’attestato di libera circolazione ai sensi dell’art. 68, con conseguente dichiarazione di improcedibilità dell’istanza in relazione a tali beni, non avrebbe avuto alcun senso avviare il procedimento di dichiarazione ex art. 14, il quale, invece, segue il diniego.
4.4. Allo stesso modo, in ragione della descritta evoluzione procedimentale, non possono ritenersi violate le disposizioni di cui al DM n. 537 del 2017, recante indirizzi generali per la valutazione del rilascio o del rifiuto dell’attestato di libera circolazione da parte degli uffici esportazione delle cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico.
4.5. Né sussiste alcuna violazione delle garanzie del contraddittorio, atteso che la relazione dell’interesse culturale agli atti d’Ufficio è stata citata come il documento da cui è possibile evincere l’interesse culturale particolarmente importante di cui all’art. 10, comma 3, lettere a) e d), del d.lgs. n. 42 del 2004 nella comunicazione di avvio del procedimento in data 21 giugno 2022, in cui ne sono riportati stralci, mentre l’interessato non ha chiesto di accedere alla relazione stessa.
- Parimenti infondato è il nucleo di doglianze con cui è contestata sia la carenza di motivazione dell’estensione della tutela, sia l’illogicità della stessa.
Il provvedimento del 10 novembre 2022 che ha dichiarato l’interesse culturale particolarmente importante, ai sensi del combinato disposto dagli articoli 10, comma 3, lettere a) e d), e 128 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, dell’immobile denominato Palazzo d’Anna (Van Haanen) Martinengo Talenti Volpi di Misurata, sito nel comune di Venezia, è stato adottato in ragione dei seguenti essenziali passaggi tratti dalla complessiva motivazione:
“Vista la nota prot. n. 10708 del 21 giugno 2022, con la quale la Soprintendenza Archeologia belle arti e paesaggio per il Comune di Venezia e la laguna ha comunicato, ai sensi del combinato disposto dagli articoli 10, comma 3, lettere a) e d), 13, 14 e 128 del d. lgs n. 42/2004, l’avvio del procedimento amministrativo di dichiarazione dell’interesse culturale dell’immobile appresso descritto”;
“A. in merito alla prima nota di osservazioni assunte al proprio prot. n. 13525 del 2 agosto 2022, precisa quanto segue.
«Nell’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 128 D.lgs 42/2004 si metteva a fuoco un doppio filone di interesse culturale rilevato nel bene immobile in oggetto: il primo, legato al valore storico – artistico e architettonico, ai sensi dell’art. 10, comma 3 lettera a); il secondo, ai sensi dell’art. 10, comma 3 lettera d), è dato dal legame con la figura del politico e imprenditore Giuseppe Volpi di Misurata, che acquisì il palazzo nel 1917, che qui aveva stabilito la sua residenza veneziana; la ricerca svolta ha rilevato come nel palazzo venne plasmato anche un particolare programma decorativo, mirato a celebrare le sue imprese in Libia ….
In ragione del legame con la figura di Giuseppe Volpi, nei suoi connotati politici, mondani, di centralità nella società veneziana, di rilevante valore come testimonianza legata alla storia novecentesca di Venezia, inoltre – in parte – come parte del particolare programma decorativo legato all’attività di Volpi in Libia, sono stati ritenuti pertinenziali anche alcuni elementi di mobilio o di decorazione, tra quelli rimossi di recente dal palazzo:
– scrivania, sedia, piedistalli e candelabri dello studio di Giuseppe Volpi, oggetti per i quali è stato chiesto l’Autorizzazione di libera circolazione allo scopo di essere inviati alla Sotheby’s Londra per essere messi in asta:
– scrivania impero in mogano e bronzo dorato (cfr. pratica SUE 573665, Richiesta ALC prot. 36310/ 2021, bene n. 21, F.L.1);
– poltrona impero in mogano (cfr. Pratica n. 573666, Richiesta ALC prot. n. 36310/2021, bene n. 22, F.L. 2);
– coppia di piedistalli in malachite e bronzo dorato (cfr. Pratica n. 573661, Richiesta ALC prot. n. 36310/2021, bene n. 17, lotto 138);
– coppia di candelabri a sette luci in bronzo dorato (cfr. Pratica n. 573662, Richiesta ALC prot. n. 36310/2021, bene n. 18, lotto 139);
– sempre dall’arredo dello studio di Giuseppe Volpi, n. 4 mappe affisse in cornici di stucco, rimosse di recente dalla loro collocazione, ma non presenti nell’elenco degli oggetti di cui alla richiesta di ALC presentata a Verona; le stesse si ritengono beni pertinenziali anche nei termini di cui all’art. 822 del Codice civile, in quanto si nota che la parete, all’interno delle cornici, non è neanche intonacata ma presenta il paramento in mattone, rendendo ovvio il fatto che le mappe erano destinate a coprirlo e che la loro collocazione lì doveva essere stabile, definitiva;
– due busti di mori, che si ritengono pertinenti alla decorazione del portego al piano terra, di cui alla richiesta di ALC presso l’Ufficio Esportazione di Verona, cfr. Pratica SUE n. 573645, Richiesta ALC prot. n. 36310/2021, bene n. 1, lotto 3).
Si specifica che la proprietà non ha chiesto a questa Soprintendenza l’accesso agli atti, per prendere visione della Relazione di interesse culturale per esteso, di cui solo estratti sono inclusi della nota di comunicazione dell’avvio del procedimento (dove è menzionato “…come si evince dalla Relazione agli atti…”), né della Documentazione fotografica completa; non ha richiesto l’esame della documentazione pregressa del fascicolo in Archivio Vincoli, del materiale dell’Archivio fotografico della SABAP”;
“Il compito di tutela che esercita la Soprintendenza è anche legato a cogliere i segnali del mutamento nella percezione dell’arte e dei valori che acquisiscono un connotato di identità collettiva; questo proprio nello spirito della “tutela del patrimonio storico e artistico della nazione”, di cui all’art. 9 della Costituzione”;
“Considerato che dalla data dell’ultimo provvedimento, notificato nel 1958, si è evoluta la teoria, il quadro giuridico e la prassi della tutela, allargando il campo di interesse a cose d’arte o elementi di architettura che non erano prospettati nel 1939, questa Soprintendenza ha agito nel campo delle proprie competenze, tutelando un insieme dove muri, apparati decorativi e alcuni arredi superstiti costituiscono un insieme che rappresenta una testimonianza rilevante per la storia veneziana, in legame alla figura di uno dei suoi protagonisti, Giuseppe Volpi di Misurata”;
“Nel Palazzo a San Beneto, si ritiene doveroso tutelare (anche) la memoria che Giuseppe Volpi costruì della sua attività in Libia, perché questo è un elemento rilevante per l’universo culturale di Giuseppe Volpi e della sua epoca, così come si riflette ancora nelle testimonianze materiali conservate nel palazzo”;
“Per uno sguardo più ampio sul tema, si ricorda anche il fatto che la tutela ai sensi del D.lgs 42/2004, parte II, dell’architettura del razionalismo, prodotta in Italia in epoca fascista, non rappresenta una glorificazione del fascismo, ma un riconoscimento dei valori estetici, costruttivi e tecnici, insiti negli edifici più rappresentativi del periodo”;
“La citata biografia di Volpi non fa che confermare che si tratta di una personalità rivelante, che a Venezia aveva dimora in questo palazzo, anche se aveva molte altre proprietà sia a Venezia che nei dintorni, oltre alla dimora di rappresentanza politica a Roma; inoltre, si specifica come nel Veneto sono state sottoposte a tutela anche altre architetture legate alla Società Adriatica di Elettricità, SADE, e quindi all’attività di imprenditore di Volpi (Centrale Volpi a Marghera, Centrale Gaggia a Soverzene)”;
“Il citato contributo nell’arredamento e decorazione delle mogli (soprattutto Nerina Pisani) non contraddice l’assetto motivazionale legato alle imprese di Volpi in Libia (e non ad un suo profilo di “conquistatore”, termine mai utilizzato nella comunicazione di avvio del procedimento)”;
“Dalla documentazione fotografica, si nota come lo studio di Volpi è uno spazio concepito in modo unitario, che così viene ritratto nelle fotografie pubblicate per un arco di tempo di molti decenni, dalla campagna fotografica del 1927 (data anticipata nelle argomentazioni dei ricorrenti, mentre l’Archivio Giacomelli del Comune di Venezia ha datato al 1940 le immagini) fino agli anni ‘90 del Novecento (si vedano le pubblicazioni di Lauritzen P., Zielcke A., Palazzi di Venezia, Monaco 1978; Stanze veneziane. Non è rilevante che nel resto del Palazzo sono state eseguite modifiche successive, così come non è rilevante se questo studio fosse o meno utilizzato da Volpi giornalmente”;
“Il procedimento non comporta un provvedimento di tutela contra legem della destinazione d’uso dello studio di Volpi ad ufficio, ma ha solo l’obiettivo della conservazione in loco degli arredi menzionati; la stanza può assumere qualsiasi destinazione compatibile con la conservazione del bene materiale, considerato anche l’ampio spazio disponibile che consente facilmente l’eventuale collocazione di ulteriori arredi, anche contemporanei”;
“Infine, i paragrafi che i ricorrenti dedicano all’approfondimento del mecenatismo dei Volpi verso Venezia non fanno che confermare la rilevanza della figura di Giuseppe Volpi per la storia veneziana del Novecento, rinforzando di fatto le motivazioni del procedimento”;
“I ricorrenti citano la sentenza del Consiglio di Stato ord. 5357 del 28 giugno 2022, in merito alla possibilità di estendere il vincolo fino a comprendere la destinazione d’uso degli arredi; ma questo è fuorviante, perché in questo caso non si tratta di alcuna imposizione di una particolare destinazione d’uso”;
“Per quanto riguarda la pertinenzialità, si sottolineano in particolare le seguenti condizioni:
“a) l’attualità di un uso, certo e dimostrato, riferibile a Giuseppe Volpi, che si intende preservare;
- b) la rigorosa dimostrazione del nesso inscindibile, stabile nel tempo e unitario, dei medesimi arredi, tra loro e l’immobile di riferimento”, si specifica che i contenuti della relazione e la documentazione grafica allegata dimostrano come la situazione soddisfa comunque entrambi i criteri, l’uso durante la vita di Volpi (campagna fotografica del 1927 o 1945?) e l’arco di tempo molto lungo che registra una stabilità negli arredi prima dello spoglio (v. successive documentazioni fotografiche nella bibliografia di riferimento)”;
“B. In merito al contenuto delle osservazioni nella seconda nota, assunte al proprio prot. n. 16246 del 20 settembre 2022, la Soprintendenza precisa infine quanto segue:
«I ricorrenti precisano che “all’esito delle ricerche [svolte dagli stessi] non sono emersi dati o elementi tali da sostenere la tesi di Codesta Soprintendenza in merito alla riconducibilità di Palazzo Volpi all’attività politica, istituzionale e diplomatica di Giuseppe Volpi o di altri membri della sua famiglia”.
Inoltre, i ricorrenti ritengono che non ci sia un legame tra l’attività di Volpi nelle colonie africane e il programma decorativo del Palazzo, in quanto non è stato trovato dai ricorrenti alcun documento scritto che testimoni tale legame.
Si ritiene che i fatti rilevati oltre a non incidere in alcun modo sul procedimento, contraddicano alcune informazioni contenute nelle prime osservazioni.
Il palazzo a San Beneto è stato, in modo incontestabile, residenza a Venezia della famiglia Volpi (come tra altro gli stessi ricorrenti ammettono, nelle prime osservazioni, dove sottolineano la partecipazione della prima moglie, Nerina, all’arredamento del palazzo), è stato comunque acquisito a titolo personale da Giuseppe Volpi nel 1917 ed è, ad oggi, di proprietà del figlio sig. Giovanni Volpi che lo ha ereditato dal padre. Si ricorda che nella prima nota di osservazioni i ricorrenti hanno sostenuto che lo studio abituale di Giuseppe Volpi era collocato altrove nel palazzo, e che la stanza al piano nobile, ad est, non era usata in modo continuativo.
Si ritiene indubitabile il legame di Giuseppe Volpi – di cui è incontestabile la fama e lo stretto legame con la storia veneziana – con questo Palazzo, indipendentemente dal numero di ore o giorni che ha passato nelle singole stanze.
È anche molto rilevante sottolineare, ancora una volta, come l’arredamento dello studio di Volpi al piano nobile è stato ritenuto talmente importante da essere ritratto in molte fotografie, commissionate anche da Volpi in vita, e altre pubblicate in volumi successivi, su un arco di molti decenni.
Per quanto riguarda un programma decorativo di tema africano, si sottolinea che la storia dell’arte – a differenza delle procedure giuridiche e delle indagini penali – opera con strumenti che, oltre la documentazione d’archivio, per lo studio dell’iconografia colgono suggestioni, deducono elementi dal contesto e dall’associazione di informazioni di diversi tipi.
Nella storia dell’arte raramente si trova un documento scritto, completo, redatto dalla committenza con indicato, a modo di elenco, un programma decorativo articolato; spesso di tratta di singole scelte puntuali, che si succedono anche in momenti temporali diversi, fatte spesso a seguito di indicazioni orali impartite ad artisti o artigiani, che però convergono verso un risultato che viene interpretato dallo storico dell’arte, nel momento in cui si prende atto, in modo critico, del bene culturale.
Pertanto, si ritiene che la decorazione realizzata durante la vita di Giuseppe Volpi sia legata al fil rouge delle imprese in Libia e nelle colonie africane perché nella cornice del soffitto nella sala da ballo, decorato da Ettore Tito con una scena di trionfo allegorico, sono scritti i nomi dei luoghi delle battaglie vinte in Tripolitania, perché le statue del cortile di palazzo Volpi sono copie di statue romane di Leptis Magna, perché le palle di pietra in cortile sono memorie – in forma di palle di canone – di battaglie dell’esercito italiano in Africa, perché nella stanza arredata a studio, le mappe alle pareti includono mappe dell’Africa, perché il cannone nel portego è memore di una battaglia africana, perché la panoplia delle armi porta anche armi africane; in questo contesto, nel portego sono presenti, nell’arredamento, anche due busti di mori”;
“Alla luce delle considerazioni sovraesposte, questa Soprintendenza conferma le motivazioni che hanno portato all’avvio del procedimento in oggetto, mirato – ai sensi dell’art. 128 – a precisare meglio l’ambito di tutela, e in particolare a dichiarare la pertinenzialità di alcuni arredi, mentre altri elementi di decorazione sono comunque immobili per destinazione”;
“In definitiva, il Palazzo D’Anna (Van Haanen) Martinengo Talenti Volpi di Misurata con i suoi assetti decorativi e allestitivi storicamente documentati, riveste un interesse culturale particolarmente importante nella storia dell’architettura e della società veneziana, in ragione della rilevanza della scelta di Giuseppe Volpi di insediarvi la propria dimora.
Essa diventa anche un luogo di rappresentanza a Venezia, luogo scelto per la predisposizione di un programma iconografico mirato a celebrare le imprese di Giuseppe Volpi; pertanto, considerato il ruolo che Volpi ricopre nella storia italiana, in particolare veneziana, del Novecento, si ritiene che l’immobile – oltre l’intrinseco valore storico – artistico già rilevato dalla prima notifica, del 1917, confermato ai sensi dell’art. 10 comma 3, lett. a) – rappresenti, con i suoi arredi selezionati, anche un tassello importante anche per la storia veneziana, di cui all’art. 10 comma 3 lett. d)”;
5.1. La motivazione si presenta ampia, esaustiva e logicamente argomentata, affrontando le questioni poste dall’interessato in chiave endoprocedimentale.
5.2. Il Collegio, in linea generale, rileva che il potere conferito dalla legge all’Autorità nella fattispecie e da quest’ultima esercitato ha natura di discrezionalità tecnica, sicché la conclusiva valutazione è un apprezzamento di merito, di per sé non sindacabile, ma soggetto in limiti assai ristretti al giudizio di legittimità, proprio in quanto espressione di discrezionalità tecnica.
Le valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze (c.d. «discrezionalità tecnica») ‒ a differenza delle scelte politico-amministrative (c.d. «discrezionalità amministrativa»), rispetto alle quali il sindacato giurisdizionale è incentrato sulla ‘ragionevole’ ponderazione di interessi non previamente selezionati e graduati dalle norme ‒ vanno vagliate dal giudice con riguardo alla loro specifica ‘attendibilità’ tecnico-scientifica.
Nel caso in esame, il presupposto del potere ministeriale di vincolo ‒ ovvero l’interesse culturale dell’opera ‒ viene preso in considerazione dalla norma attributiva del potere, non nella dimensione oggettiva di fatto ‘storico’ (accertabile in via diretta dal giudice), bensì di fatto ‘mediato’ dalla valutazione affidata all’Amministrazione.
Ne consegue che il giudice non è chiamato a sostituire la sua decisione a quella dell’Amministrazione, dovendo di regola verificare se l’opzione prescelta da quest’ultima rientri o meno nella ristretta gamma delle risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli altri elementi del caso concreto
Il giudizio per l’imposizione di una dichiarazione di interesse culturale storico-artistico particolarmente importante (c.d. vincolo diretto), ai sensi degli artt. 10, comma 3, lett. a), 13 e 14, del d. lgs. n. 42/2004, è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari (della storia, dell’arte e dell’architettura) caratterizzati da ampi margini di opinabilità. Ne consegue che l’accertamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela è sindacabile in sede giudiziale esclusivamente sotto i profili della ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza, logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto (Cons. Stato, VI, 21 marzo 2025, n. 2371, che richiama ex multis Cons. Stato. VI, 3 marzo 2022, n. 1510).
L’Amministrazione, nell’effettuare le valutazioni di competenza, in linea di massima, applica concetti non esatti, ma opinabili, con la conseguenza, già evidenziata, che può ritenersi illegittima solo la valutazione che, con riguardo alla concreta situazione, si riveli manifestamente illogica, vale a dire che non sia nemmeno plausibile, e non già una valutazione che, pur opinabile nel merito, sia da considerare comunque ragionevole, ovvero la valutazione che sia basata su un travisamento dei fatti.
Il ricorso a criteri di valutazione tecnica, infatti, in qualsiasi campo, non offre sempre risposte univoche, ma costituisce un apprezzamento non privo di un certo grado di opinabilità e, in tali situazioni, il sindacato del giudice, essendo pur sempre un sindacato di legittimità e non di merito, è destinato ad arrestarsi sul limite oltre il quale la stessa opinabilità dell’apprezzamento operato dall’amministrazione impedisce d’individuare un parametro giuridico che consenta di definire quell’apprezzamento illegittimo (cfr., ex multis, Cass. Civ., SS.UU., 20 gennaio 2014, n. 1013).
Sugli atti in discorso, essendo gli stessi sindacabili dal giudice amministrativo per vizi di legittimità e non di merito, non è consentito al giudice amministrativo esercitare un controllo intrinseco in ordine alle valutazioni tecniche opinabili, in quanto ciò si tradurrebbe nell’esercizio da parte del suddetto giudice di un potere sostitutivo spinto fino a sovrapporre la propria valutazione a quella dell’amministrazione, fermo però restando che anche sulle valutazioni tecniche è esercitabile in sede giurisdizionale il controllo di ragionevolezza, logicità, coerenza ed attendibilità.
La differenza tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di merito, in sostanza, può individuarsi nel fatto che, nel giudizio di legittimità, il giudice agisce “in seconda battuta”, verificando, nei limiti delle censure dedotte, se le valutazioni effettuate dall’organo competente sono viziate, oltre che da eventuale difetto di istruttoria o di motivazione, da eccesso di potere per manifesta irragionevolezza o da travisamento dei fatti, vale a dire se le stesse, pur opinabili, esulano dal perimetro della plausibilità, mentre, nel giudizio di merito, il giudice agisce “in prima battuta”, sostituendosi all’Amministrazione ed effettuando direttamente e nuovamente le valutazioni a questa spettanti, con la possibilità, non contemplata dall’ordinamento se non per le eccezionali e limitatissime ipotesi di giurisdizione con cognizione estesa al merito di cui all’art. 134 c.p.a., di sostituire la propria valutazione alla valutazione dell’Amministrazione anche nell’ipotesi in cui quest’ultima, sebbene opinabile, sia plausibile.
In altri termini, nella giurisdizione di legittimità, la domanda a cui il giudice deve rispondere non è se sia d’accordo o meno con la valutazione effettuata dall’Amministrazione competente, atteso che in tal caso il suo sindacato trasmoderebbe nel merito amministrativo, ma se tale manifestazione di giudizio sia o meno abnorme, la qual cosa, invece, concreterebbe il vizio di eccesso di potere.
5.3. Il Collegio ritiene che le valutazioni formulate dall’Autorità in riferimento ai profili indicati nei motivi di appello siano senz’altro plausibili, per cui nessuno dei vizi di legittimità dedotti può dirsi sussistere nell’azione amministrativa.
Il provvedimento ha chiaramente individuato i beni oggetto di tutela ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettere a) e d), del d.lgs. n. 42 del 2004.
In primo luogo, entrambe le fattispecie normative astratte si riferiscono anche a beni mobili, non solo a beni immobili.
L’interesse storico e artistico particolarmente importante emerge dal legame tra Giuseppe Volpi, di cui è incontestabile la fama e lo stretto legame con la storia veneziana, ed il Palazzo, tanto che l’Amministrazione ha sottolineato come l’arredamento dello studio Volpi al piano nobile è stato ritenuto talmente importante da essere ritratto in molte fotografie, commissionate anche da Volpi in vita, e altre pubblicate in volumi successivi, su un arco di molti decenni.
Il carattere particolarmente importante dell’interesse a causa del riferimento dei beni mobili in discorso con la storia politica e militare emerge in maniera indubitabile dalla motivazione dell’atto.
In proposito è sufficiente considerare che il provvedimento ha evidenziato come la decorazione realizzata durante la vita di Giuseppe Volpi sia legata al fil rouge delle imprese in Libia e nelle colonie africane “perché nella cornice del soffitto nella sala da ballo, decorato da Ettore Tito con una scena di trionfo allegorico, sono scritti i nomi dei luoghi delle battaglie vinte in Tripolitania, perché le statue del cortile di palazzo Volpi sono copie di statue romane di Leptis Magna, perché le palle di pietra in cortile sono memorie – in forma di palle di canone – di battaglie dell’esercito italiano in Africa, perché nella stanza arredata a studio, le mappe alle pareti includono mappe dell’Africa, perché il cannone nel portego è memore di una battaglia africana, perché la panoplia delle armi porta anche armi africane; in questo contesto, nel portego sono presenti, nell’arredamento, anche due busti di mori”.
In definitiva, l’applicazione della nozione di bene culturale ai sensi dell’art. 10 del d.lgs. n. 42 del 2004 è certamente coerente con la ratio della norma, per cui non sussiste alcun vizio sintomatico dell’eccesso di potere nel contestato esercizio dell’attività amministrativa.
- Nessuna disparità di trattamento può rilevarsi in quanto tale vizio di legittimità può invocarsi laddove vi siano situazioni identiche o quantomeno totalmente sovrapponibili, ipotesi che nella fattispecie non risulta comprovata dal solo fatto che l’Autorità ha ritenuto di interesse particolarmente importante solo alcuni dei beni per i quali è stato chiesto il rilascio di attestazione di libera circolazione.
D’altra parte, la circostanza che per gli altri beni mobili l’attestato sia stato rilasciato è satisfattiva dell’interesse del sig. Volpi di Misurata che, di conseguenza, della stessa non può dolersi.
- La questione di legittimità costituzionale è manifestamente infondata.
L’appellante ha sostenuto che, dal momento che la compressione del diritto dominicale sarebbe del tutto analoga rispetto a quella operata al fine di tutelare le collezioni o serie di oggetti, l’art. 10/3, lett. d), D. Lgs. 42/2004 applicato alle pertinenze sarebbe irragionevole, in relazione ai parametri costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 9, 42, 97 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione agli obblighi internazionali ed eurounitari sulla garanzia della proprietà privata e diritto inviolabile della persona, nella misura in cui consente – in ipotesi – di creare un vincolo d’insieme (i.e. pertinenziale) tra beni mobili e bene immobile, con conseguente effetto di inamovibilità dei primi, sulla base del “particolare interesse culturale”, anziché dell’“eccezionale interesse”.
Ora, a prescindere dal fatto che distinzione tra particolare interesse culturale ed eccezionale interesse si riflette nella esegesi da attribuire a concetti giudici indeterminati, è sufficiente rilevare che le fattispecie sono intrinsecamente differenti e non possono essere paragonate.
Infatti, le ipotesi di cui alle lettere a) e d), che ricorrono nel caso di specie, attengono a specifici beni mobili o immobili, laddove l’ipotesi di cui alla lett. e), invocata dall’appellante come tertium comparationis, si riferisce a collezioni o serie di oggetti, vale a dire ad un insieme di opere considerate come un unicum inscindibile, per le quali il legislatore ha ragionevolmente preteso, a differenza del vincolo sul singolo bene, l’eccezionale interesse.
Il sindacato di ragionevolezza, nella giurisprudenza italiana, nasce nell’ambito del sindacato costituzionale sul rispetto del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., quest’ultimo necessariamente e strutturalmente triadico, siccome fondato sul tertium comparationis, ovvero sul confronto tra la disciplina di una fattispecie simile e quella scrutinata e tale confronto ha il fine di verificare la ragionevolezza delle differenze di disciplina tra le fattispecie.
In sostanza, prendendo a paragone una norma simile a quella scrutinata, in quanto avente medesima ratio, si verifica se le differenziazioni di disciplina o le analogie siano giustificate.
Le norme che l’appellante intende mettere a confronto, invece, hanno una ratio diversa, per cui la lett. e), comma 1, dell’art. 10 del d.lgs. n. 42 del 2004 non si presta a fungere da tertium comparationis ai fin di un giudizio di legittimità costituzionale.
- In definitiva, per tutto quanto esposto, l’appello deve essere respinto in quanto infondato.
- Va da sé che, in relazione alle molteplici specificazioni e puntualizzazioni delle doglianze contenute nel ricorso in appello e nella successiva memoria, il Collegio ha preso in considerazione, nella motivazione della presente sentenza, solo quelle ritenute astrattamente rilevanti ai fini della definizione del giudizio, per cui i profili eventualmente non menzionati si intendono ritenuti privi di sostanziale interesse.
- La notevole complessità, in fatto ed in diritto, delle questioni affrontate induce a disporre l’integrale compensazione delle spese del giudizio tra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando, respinge l’appello in epigrafe (R.G. n. 1679 del 2024).
Compensa le spese del giudizio tra le parti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 27 marzo 2025, con l’intervento dei magistrati:
Carmine Volpe, Presidente
Roberto Caponigro, Consigliere, Estensore
Giovanni Gallone, Consigliere
Roberta Ravasio, Consigliere
Stefano Lorenzo Vitale, Consigliere
L’ESTENSORE
Roberto Caponigro
IL PRESIDENTE
Carmine Volpe
IL SEGRETARIO